All’inizio degli anni Ottanta, durante la progettazione di Angeli, demoni, voli cosmici, un documentario su Osvaldo Licini, Luana Trapè incontra a Porto San Giorgio il poeta Acruto Vitali, uno dei migliori e più cari amici del pittore, e gli chiede di partecipare al progetto leggendo qualche poesia di Leopardi. Già nel 1928, infatti, Licini gli scriveva: “Carissimo Vitali, io sto leggendomi e rileggendomi Leopardi e sto preparandomi seriamente al lavoro”. Questa testimonianza di interesse precoce e profonda per il poeta recanatese, rintracciabile a più riprese anche nel libro Errante Eretico Erotico, precipita però nel silenzio: Vitali si trasferisce a Milano, successivamente viene richiamato in guerra, Licini comincia a fare dei disegni ma non gliene mostra nessuno. Al suo rientro dalle armi, Licini pensa ancora a una serie di quadri su Leopardi, e vorrebbe che Vitali gli leggesse i suoi versi, con la sua sonora voce di tenore.
(Che fai tu, luna, in ciel?)
Passa molto tempo, Licini fa ritorno a Porto San Giorgio con un quadretto sotto il braccio: “ecco qua il mio Leopardi!”. Era un’Amalassunta luna.
Qui inizia la storia. Fin dalle opere giovanili di Licini esiste una consonanza interiore col poeta recanatese, una forma di paesaggio sublime per lui e per Leopardi, che nasce dalla contemplazione e dall’immersione nella natura, trasfigurata dalla pittura e dalla poesia fino a diventare una visione, un modo di sentire.
Quando si parla di sublime si compie spesso l’errore di usarlo nell’accezione del linguaggio comune, come sinonimo di eccellente, bellissimo, altissimo, mentre in questo caso dobbiamo fare un passo indietro. Il termine sublime viene usato per la prima volta nel II secolo dal greco Pseudo-Longino che, nel Trattato del Sublime, lo definiva “eco di un alto sentire”. L’opera, tradotta nel XVIII secolo, da inizio alla passione per i viaggi alla ricerca di paesaggi sublimi, emozionanti e grandiosi ma spesso tremendi, che rendevano possibile un’avventura inconcepibile nelle città, perché solo nella natura si ritrovava lo spettacolo della potenza superiore che poteva minacciare gli uomini, incutere terrore. Immanuel Kant nella Critica del giudizio (1790, solo otto anni prima della nascita di Giacomo Leopardi), definisce un secondo tipo di piacere sublime, dolente e malinconico per la finitezza dell’uomo di fronte alla grandiosità incommensurabile della natura. Il paesaggio sublime diventa uno dei protagonisti della cultura romantica, soprattutto ad opera di pittori del nord Europa – si pensi ad esempio a Caspar David Friedrich – rappresentazione di una natura spesso inclemente, dello sgomento generato da paesaggi tempestosi, ostili. E poi c’è uno sguardo meridionale del sublime, più aperto, disposto a vedere la meraviglia della natura, l’incanto, la vaghezza. Questa sensibilità del sublime tutta mediterranea risuona anche in Leopardi, che noi siamo abituati a considerare introverso, pessimista, chiuso in sé stesso, eppure in lui, il disincanto esistenziale genera il canto. È proprio questa capacità di elaborare una concezione rasserenante del sublime che l’accomuna a Licini. Si pensi al Paesaggio (1927), una scena bucolica in cui tutto è sospeso, l’aria è leggera e si può ammirare la serenità della natura, e a Il passero solitario: “Ed erra l’armonia per questa valle/ Primavera dintorno/ Brilla nell’aria, e per li campi esulta,/Sì ch’a mirarla intenerisce il core”.
Le terre marchigiane sono luoghi dell’immaginazione, del silenzio, nel quale il paesaggio fa continua opera di riduzione e sintesi, i personaggi lo attraversano, smarginano, e lo spettatore con loro. Si pensi ora al Paesaggio con l’uomo (1926), il passeggero che cammina attraverso il quadro e se ne va verso orizzonti lontani. Vediamo come un tempo sospeso, smisurato, lento, e il confine dell’orizzonte suggerisce qualcosa che, al di là, può essere infinito e incommensurabile). Leopardi, ne La quiete dopo la tempesta, scrive: “Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride/Per li poggi e le ville. Apre i balconi,/Apre terrazzi e logge la famiglia:/E, dalla via corrente, odi lontano/Tintinnio di sonagli; il carro stride/Del passegger che il suo cammin ripiglia”.
I paesaggi si fanno via via celesti, si ispirano più a ciò che l’artista immagina piuttosto che a ciò che vede. Sono le opere che più attingono da Leopardi e, ricordiamolo, quello leopardiano è un naufragio non di morte ma di estasi, di completa immersione nell’infinito, che è quanto avviene anche ai personaggi di Licini che navigano nel cielo, l’Olandese volante, gli angeli ribelli, personaggi che si librano, senza peso, spensierati, sospinti come da un vento che in realtà, nel cosmo, non esiste. Dopo queste esperienze cosmiche, Licini scrive a Giuseppe Marchiori, il critico che l’ha scoperto e compreso per primo: “dall’astratto io me ne sto volando verso lo sconfinato e il soprannaturale”. Infatti quello che, nel periodo milanese degli anni Trenta, era già un astrattismo un po’ surreale, ora matura del tutto in un paesaggio della surrealtà che si avvale anche di elementi astratti.
Tra i personaggi appare Amalassunta, “la Luna nostra bella, garantita d’argento per l’eternità, personificata in poche parole, amica di ogni cuore un poco stanco”, come scrive a Marchiori. Amalassunta era una principessa ostrogota, figlia del re Teodorico che ornò Ravenna di splendidi mosaici. Secondo la leggenda, alla morte del padre, diviene reggente e sceglie Fermo come dimora: alla periferia del regno, distrutta dai visigoti e dagli unni, rifiorirà sotto il suo governo. Secoli dopo, Licini scopre durante il suo assorto passeggiare nella città di Fermo, l’esistenza di Via Regina Amalassunta; al suo animo così aperto all’immaginazione e alla suggestione, quella nominazione ravviva la ricordanza visiva dei mosaici splendenti della basilica di Sant’Apollinare Nuovo, dei volti allungati dai tratti sintetici, essenziali, antichi. Ed ecco dunque, lontananza , durata nel tempo, immortalità di figure mitiche, trasmutazione, metamorfosi, di tutto questo è fatta Amalassunta luna. E come, nel 1954, Licini scrive a Marchiori: “forse Lendinara (il paese del critico n.d.r.), Recanati, Monte Vidon Corrado, sono una stessa cosa?”, potremmo dire oggi: Recanati, Monte Vidon Corrado, Luna, sono forse una stessa cosa? E questi personaggi titanici, che vagano per il cielo blu e sconfinato, sono in fondo Licini stesso, Angelo dal cuore rosso (1953) che atterra sulla luna, con la sua leggerezza, col suo entusiasmo e la sua forza. Come non pensare, allora, all’allunaggio del 1969 – quasi dieci anni dopo la morte del pittore – all’orma lasciata dai primi uomini sul suolo lunare? E l’astronauta avrà trovato le orme impresse in passato dai personaggi che l’immaginazione umana ha avuto l’ardire di scagliare fuori dall’orbita terrestre? Quelle dell’Angelo ribelle, che continua il suo volo verso cieli più remoti, di Astolfo, gli Argonauti, altri eroi mitici, e queste orme ancora ci inviano notizie dell’altrove, a noi che siamo pronti per nuovi voli.
E ora che avevo cominciato a capire il paesaggio: “Si scende”, dice il capotreno. “È finito il viaggio” .
(Giorgio Caproni – Disdetta)